Follia digitale

Follia digitale

La follia si insinua nel mondo digitale, lo pervade, lo conquista, lo manipola. E dal digitale ritorna alla mente umana che non smette di meravigliarsi di fronte all’ennesimo abuso della comunicazione digitale.“Se lo smartphone ti cura la mente: App e algoritmi aiutano gli psichiatri” così recita un articolo comparso il 3 Ottobre in rete e rilanciato nei social. (https://goo.gl/3vuuuB) Leggo cose del tipo:

Se la notte non dormi perchè la mente soffre, tieni il computer sempre aperto sull’applicazione, siediti davanti allo schermo e lancia l’app: puoi capire meglio le tue emozioni.

Sono in terapia con uno smartphone

Uso l’app e posso aprire cassetti chiusi della mia mente senza sentirmi giudicata

Dopo aver letto l’articolo sento forte il bisogno di postare qualcosa per commentare l’ultimo delirio del mondo digitale. Uso smartphone, tablet e PC ogni giorno e sono molto presente nella rete ma sostengo e difendo la peculiarità e la non sostituibilità del fattore umano. Pensare di essere “curati” nella mente da una app è delirio. La mente umana può essere curata in molti modi e credo che le relazioni siano il più potente strumento terapeutico che gli umani posseggono.

C’è bisogno di contenere la follia digitale dilagante e che rischia di annientare la razza umana. Leggete: “Baciami senza rete” di Paolo Crepet e scoprirete di più.

Lo shock del corpo e della mente

Lo shock del corpo e della mente

Che cosa succede nella nostra mente quando si viene esposti ad uno shock ? Ad esempio, quando si subisce l’insorgenza improvvisa di una malattia grave in grado di mettere in pericolo la nostra vita ? Per capire questo proviamo ad immaginare la psiche come fosse una persona fisica e utilizziamo la suggestione di un famoso quadro, l’Urlo di Munch

Nel quadro appare evidente il terrore, il viso, l’espressione…ha visto qualcosa di orribile forse di indicibile, si copre le orecchie con le mani come se volesse evitare di sentire. Altro elemento è l’angoscia del vuoto: di fronte ad una continuità di vita stabile, ordinata, quella che tutti noi viviamo e cerchiamo di vivere il più a lungo possibile, improvvisamente dietro a questa persona c’è il vuoto, una discontinuità che le altre persone non condividono continuando a percorrere il loro sentiero stabile. Il terzo elemento è il profondo e doloroso senso di isolamento dagli altri.

Quando la psiche viene traumaticamente aggredita si verificano almeno tre fenomeni psicodinamici che distinguiamo per motivi di spiegazione ma che sono facce della stessa medaglia:

  1. la ferita narcisistica, cioè un vissuto di grave menomazione dell’integrità dell’Io. La persona si trova staccata dagli altri e dal proprio senso di continuità con se stesso; anche questo concetto è visivamente presente nell’Urlo di Munch.
  2. la regressione psichica, cioè necessità di irrigidire le proprie difese psichiche allo scopo di evitare l’angoscia che altrimenti risulterebbe terrorizzante. Ci si sente di nuovo bambini, spaventati, dipendenti dagli altri, incerti, insicuri
  3. Negazione del cambiamento di vita drammatico e non voluto a cui si è stati esposti con cronicizzazione delle difese psichiche

La psiche è ad un bivio: o trova nell’ambiente nuove risorse o la cronicizzazione delle difese può determinare uno stato stabile di malessere/malattia psichica con coinvolgimento dell’ambiente circostante,  in primis la famiglia. Ricordo che le difese psichiche sono delle misure che mettiamo in atto per far fronte alla realtà specialmente quando è necessario adattarsi a qualcosa di nuovo soprattutto se imprevisto e negativo.

Le difese possono variare in relazione a diversi profili di personalità.

Nelle personalità ossessive le difese sono il controllo e la razionalizzazione; queste persone tenderanno quindi a pensare di fare tutto da soli, “ora ci penso io” con un tentativo di controllo e di dominanza su quello che sta accadendo.

Le personalità fobico-evitante penseranno che quello che è successo è troppo per me, non posso fare niente, pensateci voi; negano quello che è successo per avere dall’ambiente un supporto che pensano di non poter trovare in se stessi. Negazione e dipendenza.

La personalità paranoidea esaspera le difese tipiche che utilizza: il sospetto e il controllo. In altre parole pensano: “mi è successa una cosa talmente brutta e drammatica che c’è qualcosa che non va, deve essere colpa di qualcuno, ci deve essere un complotto contro di me”; in ambito sanitario quel qualcun altro che ha sbagliato può essere facilmente ritrovato in un sanitario.

La personalità depressiva invece si rifugia nel senso di colpa e nell’isolamento, deve essere colpa mia, la conseguenza di tutte gli sbagli che il depresso tende a vedere in se.

Nel sostenere questi pazienti è importante e fondamentale un modello di intervento psicologico che può essere suddiviso in tre livelli:

il sostegno individuale al paziente mediante il counselling, la psicoterapia, i gruppi di auto-aiuto e le tecniche familiari con l’obiettivo di aiutare il paziente ad accettare un drastico cambiamento di vita che ha costretto la vittima ad irrigidire i propri meccanismi di difesa.

Il sostegno alla rete familiare che è coinvolta nello shock emotivo ed è chiamata ad aiutare attivamente. Aiutare ad accettare il cambiamento del loro familiare ed essere sostenuti nel fornire l’aiuto al paziente.

Il sostegno formativo alla rete degli operatori con lo scopo di prevenire il burn-out degli operatori e di aiutare nello gestire la comunicazione con il paziente e la rete familiare.

La depressione può essere una malattia terminale ?

La depressione può essere una malattia terminale ?

Un ingegnere di Albavilla (Como) affetto da “depressione” ha nei giorni scorsi utilizzato il suicidio assistito che è attualmente disponibile in Svizzera. La Procura di Como ha aperto un fascicolo per sospetto reato di istigazione al suicidio. La stampa non specializzata è ricca di report sull’argomento e si chiede se la “depressione” può essere considerata una malattia terminale assimilabile a quelle condizioni “compatibili” con una richiesta di eutanasia e di suicidio assistito.

Il problema è naturalmente particolarmente sentito per gli addetti ai lavori (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri) per i quali la “depressione” è tra delle condizioni di malessere psichico più frequenti e significative.

Chi scrive non è in grado di fornire una risposta definitiva e supportata da evidenze alla domanda che i media si pongono ma ritiene estremamente utile chiarire alcuni punti che la maggioranza, se non totalità, dei report on line ignorano.

Partiamo dalla presenza delle virgolette sulla parola depressione, utilizzate più di una volta in questo post. I disturbi depressivi includono una varietà di condizioni psichiche anche molto diverse tra loro con diagnosi, terapia e prognosi diverse. Le scienze psicologiche hanno negli anni rivisto la classificazione dei disturbi depressivi a testimonianza che non siamo completamente consapevoli dei meccanismi profondi che causano la depressione e, quindi, è molto probabile che il futuro ci riserverà sorprese piacevoli in termini di terapia e di prognosi. Le neuroscienze progrediscono a velocità impressionanti e sappiamo oggi cose che solo 10 anni fa erano considerate appartenere alla fantascienza. Non conosciamo la tipologia della depressione che affliggeva il paziente di Como; per certo il pensiero suicidario era presente facilitato dal sapere che si può essere aiutati a morire evitando l’estremo atto autodistruttivo da porre in atto in autonomia e in solitudine. E’ quindi evidente che si trattava di un paziente grave.

Altro punto che colpisce è la frequenza del disturbo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la depressione colpisce 322 milioni di persone nel mondo e, quindi, è un’importante causa di disabilità planetaria, con un aumento del 18% di depressi stimato tra il 2005 e il 2015.

Altre ricerche epidemiologiche recenti mostrano che l’incidenza di stati depressivi è correlata anche con l’eventuale presenza di allergie alimentari o intolleranze come la celiachia. La depressione maggiore è attualmente la principale causa di malattia in Nord America e la quarta causa di disabilità in tutto il mondo. Nel 2030, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, prevede che possa essere la seconda causa di malattia in tutto il mondo dopo l’AIDS.

E’ giusto, etico, accettabile che organizzazioni con obiettivi di profit assistano il suicidio di pazienti depressi ? Dal 2002, l’anno in cui il Belgio ha legalizzato l’eutanasia, 8761 persone hanno deciso di morire in questo modo. Negli anni i criteri della legge sull’eutanasia si sono modificati fino a consentire la morte non solo delle persone gravemente malate e in fin di vita, ma anche di quelle che “soffrono in modo insopportabile”.

Cosa vuol dire “insopportabile” ? Chi valuta la “sopportabilità” ? Lo può fare il paziente stesso ? Quella di una persona depressa è una scelta libera o è dettata dall’umore ? La valutazione fatta da una persona esterna è attendibile ?

Sono domande difficili, che muovono la coscienza civile e morale e spaventano facendoci sentire la morte a portata di mano. Quante volte un paziente depresso può parlare di suicidio al suo terapeuta ? Quante volte lo stesso paziente può stare prima meglio, poi addirittura bene, aiutato dalla psicoterapia, dai farmaci e da un contesto di vita diverso ? Un dato di certezza assoluta è la volontà forte e costante da parte del terapeuta di aiutare il paziente a controllare e rimuovere le idee suicidarie per prevenire e impedire in suicidio. Sappiamo che i disturbi depressivi vanno incontro a variazioni di intensità e che le scelte fatte nei momenti “down” sono molto lontane da quelle possibili nei momenti buoni.

Lo stato depressivo è come un paio di occhiali scuri sempre presenti che impediscono di effettuare valutazioni attendibili del mondo esterno. La depressione è uno stato emotivo che di per sé non porta all’attendibilità. I terapeuti insegnano ai pazienti a prendere le distanze dalle proprie valutazioni, a non credere troppo ai loro pensieri che sono appunto frutto di una distorsione negativa e pessimista.

Nel massimo rispetto della libertà individuale, ricordiamo che la decisione di suicidarsi tramite l’eutanasia, è il frutto di un sistema di valutazione e decisione, contaminato e distorto da un paio di occhiali scuri. Questo ci permette di condannare, senza alcun “ma” o “però” chi assiste le richieste di suicidio assistito da parte di pazienti “depressi”; ci permette anche di tenere ben distinta la depressione da altre forme di malessere/malattia che, senza ombra di dubbio, possono portare l’uomo in una condizione di malessere insopportabile e di assenza di speranza.

Chi scrive non ritiene mai etico ed accettabile il suicidio assistito.

Tipi di psicoterapia

Tipi di psicoterapia

La Psicoterapia, intesa come terapia dei disturbi e del malessere della persona di origine psichica, cura attraverso la parola e la relazione. Per raggiungere questo scopo possono essere utilizzate varie metodologie e tecniche basate su teorie diverse. 

Esiste molta disinformazione su questi argomenti ed è invece importante capire differenze e analogie tra tipi di psicoterapia

Segue la descrizione di alcuni tipi (ne esistono altri) molto usati e storici.

La Psicoanalisi Freudiana

La psicoanalisi è una delle scienze che si sono via via differenziate dal corpus generale dello studio scientifico della mente. La sua differenziazione è avvenuta a cavallo tra gli ultimi due secoli ad opera di Sigmund Freud e può essere considerata precoce e distinta rispetto ad altre scienze psicologiche. E importante distinguere tra teoria e metodo in quanto la psicoanalisi non è la teoria elaborata da Freud per curare pazienti con disturbi psichici bensì un metodo. Si può dire che Freud sta alla psicoanalisi attuale come Galileo sta alla fisica moderna.

Il metodo psicoanalitico era inizialmente inteso per esplorare alcuni eventi psicopatologici; successivamente è stato affinato e ampliato con lo scopo più generale di studiare tutti i processi che regolano il comportamento delle persone. Questi processi vengono individuati e ricostruiti attraverso la narrazione messa insieme dall’analista e dall’analizzando. L’analizzando può esperire durante l’analisi i propri processi mentali che sono sottesi agli eventi che devono essere esplorati come se essi fossero stati e fossero coscienti. Ciò è quanto viene generalmente inteso con la proposizione “rendere cosciente l’inconscio”. In realtà, tutte le scienze psicologiche studiano la mente cioè studiano l’inconscio. Quello che caratterizza la psicoanalisi è il fatto che l’inconscio viene studiato attraverso l’osservazione- traduzione che passa attraverso la partecipazione del soggetto ed il suo racconto e alla fine formulata in termini narrativi, cioè, verbali; ossia come se quei processi che si vogliono indagare fossero stati esperiti dalla coscienza del soggetto e da questi riferiti. La coscienza, che è responsabile della formulazione verbale, è usata dalla psicanalisi pur essendo questa la prima scienza psicologica che della coscienza ha riconosciuto l’ingannevolezza. La specificità della psicanalisi quindi sta nell’aver individuato una serie di procedure adatte ad usare il filtro della coscienza del soggetto e al contempo decontaminarlo dalla sua ingannevolezza e mistificatorietà. Queste procedure sono basate sulla progressiva osservazione della relazione interpersonale tra analista e analizzato; la relazione è mediata dalla loro comunicazione (Verbale, metaverbale e non verbale) ed agli effetti di cambiamento che ha sull’analizzando.

Sigmund Freud è stato il fondatore della psicoanalisi e nel 1923 ne ha dato la seguente definizione:

La psicoanalisi è:

  • Un procedimento per l’indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile accedere
  • Un metodo terapeutico basato su tale indagine per il trattamento dei disturbi nevrotici
  • Una serie di conoscenze psicologiche acquisite che gradualmente si armonizzano e convergono in una nuova disciplina.

Ecco alcune scoperte fondamentali della psicoanalisi:

  • L’inconsapevolezza del sistema motivazionale che determina il comportamento delle persone
  • L’inganevolezza che il soggetto può ottenere alla introspezione
  • Le libere associazioni come chiave di interpretazione dell’inconscio
  • La contiguità tra processi psichici inconsci e eventi somatici
  • La resistenza con varie forme descritta come difesa
  • I processi di trasfert e controtransfer
  • Il setting visto come laboratorio per l’indagine
  • L’importanza della relazione tra analista e analizzando, attraverso la reciproca comunicazione inconscia, come fattore di cambiamento.

Complesso di Edipo, Super Io, pulsioni: ecco alcune formulazioni psicoanalitiche molto conosciute. Si tratta di teoria, concetti, modelli e hanno un valore strumentale limitato: le teorie non sono né vere le false ma possono essere più o meno utili allo sviluppo di una scienza e spesso vengono sostituite con teorie migliori. Le scoperte restano le teorie cambiano. La teoria freudiana, che è quella più conosciuta nel vasto pubblico, è solo una di quelle utilizzate dagli psicanalisti. Un altra teoria è quella di Melanie Klein.

La teoria freudiana è detta energetico-pulsionale poiché parte dal concetto di pulsione e ipotizza una concezione energetica in cui tutto il funzionamento mentale è spiegato attraverso una dinamica e una economia di flussi energetici (Libido).

La teoria di Melanie Klein, invece, parte dal concetto di soggetto interno e di fantasia e può essere definita come una teoria semantico-rappresentazionale: i processi mentali sono descritti attraverso una complessa rete di rappresentazioni e di significati.

(modificato da Novellino, Scegliere lo psicoterapeuta, come e quando, Franco Angeli/Le comete)

La psicologia analitica junghiana

SI tratta di una teoria psicologica e un metodo di indagine del profondo elaborato dall’analista svizzero Carl Gustav Jung e dagli allievi della sua scuola.

Si pensa erroneamente che la psicologia analitica di Jung sia derivata direttamente dalla psicoanalisi freudiana e che lo stesso Jung fosse allievo di Freud mentre invece Jung elaborò una propria visione dell’inconscio autonomamente da Freud.

I due collaborarono per alcuni anni ma nel 1913 si verificò una rottura mai ricomposta. In quell’anno, con la pubblicazione del libro “Libido. Simboli della Trasformazione”, Jung si distaccò da Freud sostenendo che la libido non è solamente energia sessuale, che mira a scaricarsi con il raggiungimento dell’oggetto desiderato, ma è invece l’energia psichica in toto; l’inconscio, inteso da Freud (almeno inizialmente) come mero ricettacolo del rimosso, è visto invece da Jung come una porzione della psiche che contiene altri contenuti che non sono mai stati parte della coscienza.

L’osservazione dei contenuti dei sogni, dei deliri psicotici, della mitologia e della storia delle religioni portò Jung a ipotizzare un ulteriore dimensione dell’inconscio che definì “inconscio collettivo“, i cui contenuti chiamò archetipi. Per la psicologia analitica junghiana, il processo di individuazione archetipica costituisce la finalità dell’esistenza di ogni persona.

La psicologia analitica junghiana segue nella propria indagine un metodo finalistico, il cui obiettivo è la ricerca del senso dei processi inconsci e della sofferenza psichica. Di fondamentale importanza è la teoria del simbolo, inteso da Jung come motore dello sviluppo psichico e strumento di trasformazione dell’energia psichica, originato dal confronto della coscienza con l’inconscio ed i suoi contenuti.

L’inconscio personale non è, come per Freud, il “luogo del rimosso”, cioè un contenitore psichico vuoto alla nascita, che man mano si popola di complessi causati da episodi traumatici infantili. Per Jung anzitutto l’inconscio non è “vuoto”, ma è il contenitore di forme archetipiche universali ereditarie, all’interno del quale si organizzano le esperienze individuali. Inoltre esso precede la formazione dell’Io cosciente, e contiene il progetto esistenziale dell’individuo che ne è portatore, qualcosa che fa pensare ad una sorta di codice genetico psichico.

Anche per Jung, come per Freud, l’inconscio non è direttamente osservabile ma solo attraverso l’analisi e il processo di individuazione.

Jung pensava che nel sintomo nevrotico come nel delirio psicotico affiorino immagini e idee che non sono proprie personali del paziente, ma che gli pervengono da un “fondo arcaico”, e le cui figure possono desumersi da culti, religioni e mitologie antichi appartenenti a tutti i popoli: sono gli archetipi, forme alla base dell’inconscio collettivo, condivise da tutta l’umanità, che costituiscono, nel campo psicologico, l’equivalente di ciò che in campo antropologico sono le “rappresentazioni collettive” dei primitivi, o, nel campo delle religioni comparate, le “categorie dell’immaginazione”.

La dinamica dualistica ed esclusiva tra Eros e Thanatos in cui Freud aveva individuato e confinato il motore energetico della nevrosi, in Jung si articola e si moltiplica in funzione della pluralità delle figure archetipiche che popolano l’inconscio.

Il sintomo non richiede più una spiegazione in chiave di causa-effetto, ma viene considerato esso stesso una “domanda di significato” rispetto al disagio soggettivo che esprime.

Il disturbo psichico smette così di essere considerato una malattia, e l’intervento analitico non viene più considerato solo una “cura”; ne consegue che la pratica psicologico-analitica junghiana non mira più ad una “guarigione”, ma ad individuare il senso simbolico e archetipico del disturbo, e ad aiutare il suo portatore ad utilizzarne l’energia ai fini della “trasformazione” e della propria individuazione.

Lavorare con gli archetipi richiede certamente molte conoscenze di tipo non clinico, perché richiede anche molta immaginazione e accompagnare il paziente in questa esplorazione richiede da parte del terapeuta un’attenzione non solo intellettuale, ma anche empatica. E’ quindi  evidente che, nell’analisi junghiana, la psiche del terapeuta è “messa in causa” dall’analisi non meno di quella del paziente. Da questo punto di vista, la teoria della tecnica junghiana ha prefigurato alcuni dei più recenti sviluppi della psicoanalisi intersoggettiva.

La psicoterapia  analitico-transazionale

L’analisi transazionale (AT) nasce negli anni 50 ad opera dello psichiatra Eric Berne che sviluppò un modello di personalità, di comportamento umano e di relazioni basato sull’equilibrio tra tre diversi sistemi di interpretazione e reazione: gli stati dell’Io. Si tratta di esperienze vissute in piena consapevolezza e che si formano sia in risposta ai vissuti dell’infanzia (là ed allora) che a quelli del momento presente (qui ed ora).

Berne formulò la sua teoria in modo semplice e quindi facilmente comprensibile con l’obiettivo di rendere accessibile a chiunque una lettura di se stessi e degli altri chiara, profonda e non invasiva allo stesso tempo. Differenziandosi in modo netto da Freud, secondo il quale Es e super-Io non sono osservabili direttamente ma valutabili solo dopo l’analisi dell’inconscio, Berne affermò che gli Stati dell’Io sono osservabili direttamente come comportamenti, emozioni, pensieri e modalità relazionali.

Gli altri due concetti teorici fondamentali su cui è basata la psicoterapia analitico transazionale sono i giochi e il copione. I giochi psicologici sono le comunicazioni e i comportamenti tra le persone in risposta a stimoli inconsapevoli derivanti da esperienze e decisioni infantili. Si tratta di situazioni sempre spiacevoli per i “giocatori” che pensano e agiscono senza consapevolezza sulle reali motivazioni. Il copione è il piano di vita che ciascuno di noi mette in atto in età infantile per sopravvivere, sia psicologicamente che fisicamente, alle difficoltà ambientali e relazionali.

Il metodo psicoterapeutico che deriva dal modello AT è basato sull’analisi degli Stati dell’Io (interna e nelle relazioni), dei giochi e del copione. Il metodo classico Berniano consiste nell’attivare progressivamente lo Stato dell’Io Adulto decontaminandolo dalle influenze inconsapevoli sia del Bambino che del Genitore; successivamente si passa a “deconfondere” lo Stato dell’Io Bambino portando alla coscienza sia i giochi che il copione di vita. Tali analisi partono dall’osservazione delle dinamiche tra terapeuta e paziente o tra pazienti di un gruppo.

Altri aspetti metodologici della psicoterapia analitico transazionale sono l’impostazione di tipo contrattuale e la ricerca obbligata dell’alleanza terapeutica in cui terapeuta e paziente concordano su metodi e obiettivi.

I disturbi che rispondono bene alla psicoterapia AT sono quelli dell’umore (depressione), i disturbi d’ansia (paure, fobie, attacchi di panico), i disturbi generali di personalità. Rispondono male, e sono quindi da considerarsi una controindicazione, i disturbi del pensiero (psicosi acuta) e le tossicodipendenze.

Scegliere il terapeuta

Scegliere il terapeuta

Prima del primo colloquio

I paragoni con altri tipi di scelta sono utili e inappropriati allo stesso tempo: anche nell’ambito sanitario, lo psicoterapeuta è uno specialista con caratteristiche e competenze molto diverse da un chirurgo o da un endocrinologo; lo psicoterapeuta è maestro delle abilità non tecniche, relazionali, comportamentali e la relazione con il paziente sarà esclusivamente psichica e di linguaggio.

Non è possibile fornire “linee guida” basate su evidenze mentre è utile sottolineare alcuni aspetti della scelta:

  • attenzione ai nominativi pubblicizzati soprattutto nella rete: diffidare sempre di persone che non dichiarano, in modo chiaro e controllabile, i loro titoli e le loro competenze; chiunque può acquistare e gestire un sito e nessun controllo di qualità è previsto in modo sistematico e costante
  • attenzione massima alle persone conosciute attraverso le trasmissioni televisive: essere chiamati a partecipare ad un talk show non comporta necessariamente competenza e professionalità; al contrario, gli ospiti delle trasmissioni e i così detti esperti sono reclutati mediante conoscenze e passa parola.
  • tenere in buona considerazione i terapeuti che hanno condotto con successo terapie con persone che ne sono rimaste pienamente soddisfatte
  • tenere in buona considerazione nominativi forniti da specialisti (psicologi, psichiatri) che conoscano personalmente il terapeuta
  • tenere in buona considerazione nominativi forniti dalle Scuole di Specializzazione e dalle associazioni riconosciute e qualificate.

Elementi Ok di un terapeuta

  • Laurea in Medicina e Chirurgia o in Psicologia
  • Iscrizione all’Ordine dei Medici o degli Psicologi
  • Svolge colloqui di orientamento (2 o 3) prima di prendere “posizione”
  • Informa il paziente in modo chiaro su quello che è meglio per lui (psicoterapia, farmaci, entrambi)
  • Imposta il rapporto in modo discreto e professionale
  • Informa il paziente in modo chiaro sui termini e le modalità dell’impegno da parte sua

Naturalmente, questi non devono essere considerati elementi che, se presenti, garantiscono il risultato ! Nessuno può garantire il risultato perchè anche il terapeuta più competente e esperto non potrà nulla in assenza di lavoro attivo del paziente (cosa non prevedibile all’inizio)

Elementi NON Ok di un terapeuta

  • fornisce risposte evasive e vaghe alle richieste sulla natura dei problemi e sui risultati che ci si possono aspettare, come se il terapeuta non volesse impegnarsi nè compromettersi
  • è eccessivamente sicuro e deciso sui risultati con guarigione scontata e sicura
  • è eccessivamente confidenziale (passa al “tu” facilmente) e assume un ruolo di “amicone” di cui ci si può sicuramente fidare
  • fa il nome di altri pazienti
  • fa capire o dice che la relazione avrà delle appendici extra-seduta:  “….magari una sera ci mangiamo una pizza insieme…..”
  • svaluta e critica altri colleghi o altri tipi di psicoterapia: il professionista serio non giudica senza conoscere in prima persona e rispetta il lavoro degli altri
Posizioni esistenziali

Posizioni esistenziali

Come ci poniamo rispetto alla vita ? Come vediamo noi stessi e come vediamo la nostra esistenza ? Come vediamo noi stessi rispetto agli altri ? Come vediamo l’esistenza e la vita degli altri ?

Per cercare di rispondere a queste domande e avere dei modelli semplici con cui le persone e i comportamenti si possano classificare e quindi capire, l’analisi transazionale individua quattro possibili posizioni esistenziali ” che le persone attivano nella vita.

La decisione di assumere una determinata posizione è presa in epoca antica, nella nostra prima infanzia in risposta agli stimoli ambientali che riceviamo. I genitori e tutte le altre figure di attaccamento determinano la soddisfazione o insoddisfazione dei nostri bisogni e su queste basi prendiamo decisioni sul nostro valore, sul valore degli altri e sulla vita in genere e scegliamo quale copione recitare sul palcoscenico della nostra vita presente e futura.

Le “posizioni esistenziali” descrivono come una persona vede sé e gli altri e influenzano di conseguenza il modo secondo il quale ciascun individuo pensa, agisce ed entra in rapporto con l’altro.

La relazione ha due poli: l’individuo e l’altro, che può essere sia una persona che una situazione, e ciascuno dei due poli può essere vissuto come positivo o negativo.

Io sono OK – Tu sei OK  (Sano e costruttivo)

E’ la posizione nei confronti della vita positiva, ottimista,  concreta e “problem solving”. L’altro è una risorsa che viene accettata e con cui si può collaborare. Non scarico sull’altro le responsabilità o, al contrario, non colpevolizzo me stesso per ciò che non è andato a buon fine.

Ci si sente uguale nella differenza: io sono ok come te, pur essendo diverso da te che sei ok. C’è un atteggiamento di ascolto autentico per capire il punto di vista dell’altro e integrare su questo aspetto più approcci differenti necessari alla ricerca in comune di una soluzione.

Le persone che sono in questa posizione hanno spesso alcune o molte delle seguenti caratteristiche:

  • non giudicano e accettano gli altri
  • hanno una buona autostima
  • sono assertivite e fiduciose
  • ascoltano e comunicano in modo diretto, chiaro, spontaneo
  • hanno aspettative realistiche da sé e dagli altri
  • sono flessibili
  • sono comprensive, tolleranti, disponibili
  • non nascondono le emozioni
  • sono ottimiste e tendono a risolvere il problemi

Io sono OK – Tu non sei OK (Paranoide o Proiettivo)

Svaluto l’altro e  supervaluto me stesso: la persona si relaziona attraverso il dominio el’esibizione di sé con un comportamento aggressivo, rifiutante e accusatorio. E’ tutta colpa degli altri e le responsabilità personali non esistono. In realtà si sentono vittime e perseguitate e per difendersi da questa idea vittimizzano e accusano gli altri. Spesso si sentono imbrogliate, odiano e incolpano gli altri per le proprie disgrazie, negando di avere un problema personale.

Se ascoltano, lo fanno solo per capire le differenze con i punti di vista dell’altro e per scoprire la falla altrui in modo da poter imporre il loro modo di vedere le cose.

Le persone che sono in questa posizione hanno spesso alcune o molte delle seguenti caratteristiche:

  • sono giudicanti e accusatorie, rigide e estremiste
  • sono impazienti, competitive, invadenti, prevaricanti, aggressive, autoritarie
  • hanno grande stima di sé e non riconoscono i diritti altrui
  • hanno bisogno di relazionarsi con persone remissive, fragili e con bassa autostima

Io non sono OK – Tu sei OK (Depressiva)

Svaluto me stesso e  supervaluto l’altro ritenuto più forte e più potente. Dipendono dagli altri e sono inadeguate e incapaci di affrontare le situazioni.

A poco a poco il soggetto si ritira dalla relazione con gli altri, cade nella depressione e ritiene che la sua vita non valga molto. Se ascoltano è solo per compiacere.

Le persone che sono in questa posizione hanno spesso alcune o molte delle seguenti caratteristiche:

  • hanno scarsa autostima con atteggiamenti vittimistici e perdenti
  • non accettano complimenti o sollecitazioni positive
  • si sentono a disagio nelle relazioni
  • sono depresse, ansiose, autocritiche, sottomesse, scusanti, timorose, timide, silenziose, appartate

Io Non sono OK – Tu non sei OK  (Inutilità)

Svaluto me stesso e  l’altro. “Non si può fare niente”. Rassegnazione e depressione.

Percepite come disinteressate verso gli altri, chiuse, negative e pessimiste.

Le persone che sono in questa posizione hanno spesso alcune o molte delle seguenti caratteristiche:

  • hanno scarsa autostima
  • sono depresse e senza speranze, rassegnate all’infelicità
  • sentono che tutto è inutile
  • non assumono iniziative, scaricano problemi e difficoltà

Ogni persona ha una posizione esistenziale “preferita” e che sente sua sulla base di antiche decisioni di sopravvivenza; tuttavia è possibile che la stessa persona assuma posizioni diverse sulla base degli stimoli ambientali e dei momenti di vita. Inoltre, anche la posizione che preferiamo, e che probabilmente usiamo più spesso o sempre, può essere rivista sulla base di nuove esperienze, di nuove consapevolezze e di nuove relazioni.

Patologia degli stati dell’io

Patologia degli stati dell’io

Una persona si comporta in modo sano quando è in grado di utilizzare tutti gli Stati dell’Io in modo appropriato e conveniente alla situazione ambientale del momento

Valutazione degli Stati dell’Io

Berne osservò che i tre Stati dell’Io hanno quattro caratteristiche:

1) potere esecutivo, cioè il potere che hanno di assumere il controllo dell’attività neuromuscolare di una persona;

2) adattabilità, cioè la capacità di rispondere a stimoli social attraverso il comportamento;

3)  fluidità biologica, cioè la capacità di cambiare ed evolversi;

4) intelligibilità, per cui ogni individuo può dire in quale Stato dell’Io si trovi in un dato momento.

Attraverso queste proprietà è possibile capire gli Stati dell’Io sia in se stessi che negli altri in quattro ambiti: comportamentale, sociale, storica e fenomenologica; quando tutte e quattro convergono su uno stesso Stato la diagnosi è la più certa.

Comportamentale: consiste nell’osservazione del comportamento di una persona, del tono di voce, della postura, dei gesti dei discorsi etc.

Sociale: consiste nell’osservazione dello stato dell’Io suscitato negli altri, la diagnosi si fa osservando il genere di transazioni che una persona ha con gli altri.

Storica: consiste nell’investigare la storia passata del paziente, per vedere se la persona reagisce come reagiva da bambino (probabile stato dell’Io bambino) oppure se reagisce come i suoi genitori facevano allora (probabile stato dell’Io genitore).

Fenomenologica: consiste nel rivivere il momento in cui una data esperienza di uno stato dell’Io venne provata originariamente.

Patologia degli Stati dell’Io

Una persona si comporta in modo sano quando è capace di energizzare uno stato dell’Io a sua scelta e più adatto alla situazione ed è capace di valutare la realtà dal punto di vista Adulto senza che i pregiudizi del Genitore o le paure del Bambino non diventino informazioni per questo.

Si parla di patologia dello stato dell’Io quando i confini dell’Adulto di una persona crollano ed esso è contaminato o dal Bambino o dal Genitore o da entrambi. Emerge la contaminazione del Bambino attraverso fobie, superstizioni, fissazioni per cui l’individuo usa vecchi vissuti per una inappropriata valutazione del qui e ora. Mentre siamo di fronte ad una contaminazione del Genitore quando l’individuo usa come dati di fatto pregiudizi e motti genitoriali. L’ Adulto può essere contaminato contemporaneamente sia dal Genitore che dal Bambino: quando i messaggi genitoriali sono potenti possono risvegliare nel Bambino forti emozioni e entrambi possono contaminare l’Adulto.

Esclusioni: un’altra patologia è presente quando uno o due Stati dell’Io dominano il comportamento di un individuo. Lo stato dell’Io dominante si chiama costante o escludente mentre lo stato dell’Io che non è usato si dice escluso. Nessuna esclusione però è totale, anche uno stato dell’Io escluso contiene energia legata, e così continua a rispondere in qualche modo agli stimoli esterni. A seconda dell’esclusione si hanno caratteristiche diverse della persona: quando il G è escluso la persona non si prende cura degli altri, quando è escluso l’A la persona è in una situazione cronica di turbolenza, quando è escluso il B la persona manca di spontaneità e allo stesso tempo di dispiacere profondo. Le persone fredde, molto razionali hanno un A esclusore, la persona che invece vive solo secondo norme e principi, ha un G esclusore infine in chi vive secondo l’impulso del momento ha il B l’esclusore.

La relazione terapeutica

La relazione terapeutica

Il contratto tra psicoterapeuta e paziente

Parlare di contratto in una relazione d’aiuto come quella tra psicoterapeuta e paziente potrebbe facilmente causare malessere e rimandare ad ambiti completamente diversi e a circostanze amministrative e/o burocratiche. Questo malessere è importante che sia superato perchè il contratto in psicoterapia è uno strumento indispensabile per proteggere entrambe le parti e permette di capire punti chiave dell’argomento.

Il terapeuta riceve la fiducia del paziente e ha la grande responsabilità di gestire tale fiducia soprattutto gestendo il potere che gli viene conferito da tale fiducia e dalla inevitabile dipendenza da lui. Il paziente affiderà al terapeuta la sua intimità, la sua insicurezza, i suoi segreti e suoi pensieri incoffessabili. E’ un potere e una dipendenza che ricordano il rapporto tra genitore e figlio e, come un buon genitore, il terapeuta ha bisogno delle seguenti caratteristiche:

  • non dovrà essere dipendente dal figlio/paziente perchè in possesso di una sua vita affettiva e sociale che gli permette di soddisfare i suoi bisogni indipendentemente dal figlio; ad esempio non investirà sul paziente in termini di aspettative e bisogni. Il terapeuta, come un buon genitore, si occupa della crescita emotiva del suo paziente e ha come obiettivo primario l’indipendenza del paziente.
  • è affettuoso e normativo in modo bilanciato e proporzionato ai bisogni e alle circostanze; fornisce atteggiamenti supportivi e affettivi ma limita e pone confini nel caso che il paziente/figlio travalichi o ignori i limiti posti dalla realtà. Nell’ambito della relazione terapeutica, quindi, il limite è costituito proprio dal fatto che non si tratta di un genitore “reale” ma di una metafora del genitore; i limiti vengono quindi forniti dalla natura professionale del contratto.

Il rispetto dei limiti del contratto è un punto indispensabile e primario.

Un contratto prevede un accordo esplicito e verbalizzato sugli obiettivi della relazione terapeutica: terapeuta e paziente concordano sulla necessità e sull’utilità di intervenire su problemi emotivi e relazionali utilizzando la competenza professionale del terapeuta.

Il contratto non presuppone, però, che la relazione terapeuta-paziente sia “alla pari” poichè dei due è il terapeuta ad avere capacità di valutazione e a decidere cosa sia meglio per il paziente. Una metafora consente di capire meglio questo concetto:

“la terapia è come una barca su cui terapeuta e paziente navigano insieme; entrambi possono decidere e concordare dove andare e quali mari esplorare ma solo il terapeuta, soprattutto all’inizio, è in grado di governare la barca e di evitare pericoli e incognite perchè conosce gli strumenti della barca, il meteo e i mari dove si può navigare; il paziente imparerà, aiutato dal terapeuta, a governare fino al punto di essere in grado di andare da solo” 

Come funziona la psicoterapia ?

Alcuni punti devono essere chiari per il paziente e devono essere spiegati dal terapeuta prima di iniziare qualsiasi percorso:

  • La psicoterapia è basata sulla collaborazione tra due persone e non produce effetti se non con la partecipazione attiva del paziente.
  • Il lavoro consiste nella esplorazione delle componenti razionali ed emotive della personalità del paziente
  • La durata non è prevedibile in modo preciso ma solo approssimativamente
  • Il lavoro ha un costo di cui il paziente deve farsi carico preferibilmente personalmente
  • Come tutti gli interventi medici, il terapeuta ha l’obbligo della confidenzialità e riservatezza (segreto professionale)

Professionalità e deontologia del terapeuta

La competenza professionale del terapeuta è quella che consente di aiutare il paziente a risolvere i propri blocchi, i propri malfunzionamenti e i propri conflitti in modi che egli possa aumentare le possibilità di benessere, equilibrio e felicità; è quella che consente di capire l’altro aiutandolo a intervenire sui problemi per i quali ha chiesto aiuto.

La deontologia è quella di rimanere nei limiti professionali del rapporto, limiti che possono essere messi a rischio dall’intimità psichica e dai sentimenti di dipendenza e affetto. Una grande psichiatra e psicoterapeuta (Silvia Daini) diceva che nella stessa della terapia qualsiasi cosa era consentita fatti salvi i contatti fisici, amorosi o aggressivi che fossero.

Che cosa da lo psicoterapeuta ?

  • Fornisce informazioni chiare e dirette sui suoi titoli, sul tipo di psicoterapia che intende svolgere, sui costi e, in modo approssimativo, sulla durata della relazione.
  • Garantisce riservatezza assoluta
  • Informa il paziente sui fini e sulle possibilità di successo della terapia eliminando qualsiasi aspettativa miracolosa o magica di “guarigioni” rapide e definitive.
  • Offre uno o due colloqui orientativi prima di formulare ipotesi diagnostiche e progetti terapeutici.
 Che cosa da il paziente ?

Senza un atteggiamento attivo del paziente la terapia è destinata al fallimento. Quindi al paziente deve essere chiaro fin dall’inizio che:

  • dovrà mettersi in gioco ed essere disponibile a lavorare su se stesso
  • non esistono effetti immediati e miracolosi come quelli dei farmaci; per conoscersi e per conoscere i motivi veri del proprio malessere occorre tempo.
  • dovrà investire risorse sia in termini di tempo (non meno di 1 seduta a settimana) che di denaro
I giochi e il copione

I giochi e il copione

Tutto il mondo è un palcoscenico e tutti, uomini e donne non sono che attori. Hanno le loro entrate e le loro uscite; ciascuno nella sua vita recita diverse parti. (William Shakespeare)

I giochi psicologici

games people play

Eric Berne definisce così il gioco: “Il gioco psicologico è una serie di transazioni ulteriori ripetitive a cui fa seguito un colpo di scena con uno scambio di ruoli, un senso di confusione accompagnato da uno stato d’animo spiacevole come tornaconto finale, in termini di rinforzo di convinzioni negative su di sé, sugli altri, sul mondo”. Tradotto in parole ancora più semplici: Il gioco è un tipo di relazione interpersonale “disturbata”, che procura stati d’animo spiacevoli. Questa comunicazione “disturbata” non è volontaria e le persone coinvolte non ne hanno consapevolezza: per questo motivo lo stesso gioco tenderà a ripetersi più volte.

Perché le persone giocano? Quali sono i motivi per i quali si utilizza un modo relazionale di questo tipo? Si tratta del persistere di aspetti infantili (esperienze, decisioni di sopravvivenza) che permangono nell’adulto e che condizionano i comportamenti e le emozioni senza che se ne abbia coscienza.

Il copione di vita

a che gioco giochiamo

I nostri aspetti infantili ci portano ad organizzare un programma, un piano di vita in cui noi e gli altri hanno dei ruoli fissi compatibili con delle decisioni di sopravvivenza prese in epoche arcaiche. Come in tutte le storie, la storia della nostra vita ha un inizio, un punto di mezzo e una fine. Ha i suoi eroi, le sue eroine, i suoi cattivi, i suoi protagonisti e le sue comparse. Ha il suo tema principale e i suoi intrecci secondari. Può essere comica o tragica, mozzafiato o noiosa, fonte d’ispirazione o banale.Il problema consiste nel fatto che gli inizi del nostro copione sono al di fuori della portata della nostra memoria cosciente.

In “Principi di terapia di gruppo” Berne ha definito il copione «un piano di vita inconscio». Successivamente in “Ciao!… E poi ?” ne ha dato una definizione più completa: «Un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva».